La banda dei giudici corrotti: l'inchiesta che sta sconvolgendo la magistratura
POLITICASentenze vendute, elezioni annullate, depistaggi. C'è una vera e propria rete di toghe sporche al lavoro da Milano alla Sicilia
Giustizia corrotta, ai massimi livelli. Con una rete occulta
che corrode il potere giudiziario dall’interno, arrivando a minare i pilastri
della nostra democrazia. Un’inchiesta delicatissima, coordinata dalle Procure
di Roma, Messina e Milano, continua a provocare arresti,
da più di un anno, tra magistrati di alto rango. Non si tratta di
casi isolati, con la singola toga sporca che svende una sentenza. L’accusa,
riconfermata nelle diverse retate di questi mesi, è molto più grave: si indaga
su un sistema di contropotere giudiziario, con tutti i crismi dell’associazione
per delinquere, che si è organizzato da anni per avvicinare, condizionare e
tentare di corrompere un numero indeterminato di magistrati. Qualsiasi giudice,
di qualunque grado.
Al centro dello scandalo ci sono i
massimi organi della giustizia amministrativa: il Consiglio di
Stato e la sua struttura gemella siciliana. Sono giudici di secondo e ultimo
grado: decidono tutte le cause dei privati contro la pubblica amministrazione
con verdetti definitivi (la Cassazione può intervenire solo in casi
straordinari). Molti però non sono magistrati: vengono scelti dal potere
politico. Eppure arbitrano cause di enorme valore, come i mega-appalti
pubblici. Interferiscono sempre più spesso nelle nomine dei vertici di tutta la
magistratura, che la Costituzione affida invece al Csm. Possono perfino
annullare le elezioni. L’indagine della procura di Roma ha già provocato decine
di arresti, svelando storie allucinanti di giudici amministrativi
con i soldi all’estero, buste gonfie di contanti, magistrati anche
penali asserviti stabilmente ai corruttori, giri di prostituzione minorile e
sentenze svendute in serie, «a pacchetti di dieci». Con tangenti pagate anche
per annullare il voto popolare. Un attacco alla democrazia attraverso la
corruzione.
L’antefatto è del 2012: un candidato del centrodestra in
Sicilia, Giuseppe Gennuso, perde le elezioni
per 90 preferenze e contesta il risultato, avvelenato da una misteriosa vicenda
di schede sparite. In primo grado il Tar boccia tutti i ricorsi. Quindi il
politico siciliano, secondo l’accusa, versa almeno 30 mila euro a un mediatore,
un ex giudice, che li consegna al presidente del Consiglio di giustizia
amministrativa della Sicilia, Raffaele Maria De Lipsis. Che nel gennaio 2014 annulla
l’elezione e ordina di ripetere il voto in nove sezioni dei comuni di
Pachino e Rosolini: quelle dove è più forte Gennuso. Che nell’ottobre 2014
conquista così il suo seggio, anche se ha precedenti per lesioni, furto con
destrezza ed è indiziato di beneficiare di voti comprati. Il politico respinge
ogni accusa. Che oggi risulta però confermata dalle confessioni di due potenti
avvocati siciliani, Piero Amara e Giuseppe Calafiore, arrestati nel febbraio
2018 come grandi corruttori di magistrati.
L’esistenza di una rete strutturata per
comprare giudici era emersa già con le prime perquisizioni. Nel luglio 2016,
in casa di un funzionario della presidenza del consiglio, Renato Mazzocchi,
vengono sequestrati 250 mila euro in contanti e una copia appuntata di una sentenza
della Cassazione favorevole a Berlusconi sul caso Mediolanum. Altre indagini
portano a scoprire, come riassume il giudice che ordina gli arresti, «un elenco
di processi, pendenti davanti a diverse autorità giudiziarie», con nomi di
magistrati affiancati da cifre. Uno di questi è Nicola Russo, presidente di
sezione del Consiglio di Stato, nonché giudice tributario. Quando viene
arrestato, nella sua abitazione spuntano atti di processi amministrativi
altrui, chiusi in una busta con il nome proprio di Mazzocchi. Negli stessi mesi
Russo viene sospeso dalla magistratura dopo una condanna in primo grado per
prostituzione minorile. Oggi è al secondo arresto con l’accusa di essersi fatto
corrompere non solo dagli avvocati Amara e Calafiore, ma anche da imprenditori
come Stefano Ricucci e Liberato Lo Conte. Negli interrogatori Russo conferma di
aver interferito in diversi processi di altri giudici, su richiesta non solo di
Mazzocchi, ma anche di «magistrati di Roma» e «ufficiali della Finanza». Ma si
rifiuta di fare i nomi. Per i giudici che lo arrestano, la sua è una manovra
ricattatoria: l’ex giudice cerca di «controllare questa rete riservata» di
magistrati e ufficiali «in debito con lui per i favori ricevuti».
Anche De Lipsis, per anni il più potente giudice amministrativo
siciliano, ora è agli arresti per due accuse di corruzione. Ma è sospettato di
aver svenduto altre sentenze. La Guardia di Finanza ha scoperto che la
famiglia del giudice ha accumulato, in dieci anni, sette milioni di euro: più
del triplo dei redditi ufficiali. Scoppiato lo scandalo, si è dimesso. Ma anche lui ha
continuato a fare pressioni su altri giudici, che ora confermano le sue
«raccomandazioni» a favore di aziende private come Liberty Lines (traghetti) e
due società immobiliari di famiglia dell’avvocato Calafiore, che progettavano
speculazioni edilizie nel centro storico di Siracusa (71 villette e un
ipermercato) bocciate dalla Soprintendenza.
L’inchiesta riguarda molti verdetti d’oro. Russo è accusato
anche di aver alterato le maxi-gare nazionali della Consip riassegnando un
appalto da 338 milioni alla società Exitone di Ezio Bigotti e altri ricchi
contratti pubblici all’impresa Ciclat. Per le stesse sentenze è sotto inchiesta
un altro ex presidente di sezione del Consiglio di Stato, Riccardo Virgilio:
secondo l’accusa, aveva 751 mila euro su un conto svizzero. Per ripulirli, il
giudice li ha girati a una società di Malta degli avvocati Amara e Calafiore.
Tra gli oltre trenta indagati, ma per accuse ancora da
verificare, spicca un altro presidente di sezione, Sergio Santoro, ora
candidato a diventare il numero due del Consiglio di Stato.
A fare da tramite tra imprenditori, avvocati e toghe sporche,
secondo l’accusa, è anche un altro ex magistrato amministrativo, Luigi Caruso.
Fino al 2012 era un big della Corte dei conti, poi è rimasto nel ramo: secondo
l’ordinanza d’arresto, consegnava pacchi di soldi alle toghe sporche ancora
attive. Lavoro ben retribuito: tra il 2011 e il 2017 l’ex giudice ha versato in
banca 239 mila euro in contanti e altri 258 mila in assegni.
Amara, come avvocato siciliano dell’Eni, è anche l’artefice
della corruzione di un pm di Siracusa, Giancarlo Longo, che in cambio di almeno
88 mila euro e vacanze di lusso a Dubai aprì una fanta-inchiesta giudiziaria
ipotizzando un inesistente complotto contro l’amministratore delegato dell’Eni,
Claudio Descalzi. Un depistaggio organizzato per fermare le
indagini della procura di Milano sulle maxi-corruzioni dell’Eni in Nigeria e
Congo. Dopo l’arresto,
Longo ha patteggiato una condanna a cinque anni. Ma la sua falsa inchiesta ha
raggiunto il risultato di spingere alle dimissioni gli unici consiglieri
dell’Eni, Luigi Zingales e Karina Litwak, che denunciavano le corruzioni
italiane in Africa.
Nella trama entra anche il potere politico, proprio per i
legami strettissimi tra Consiglio di Stato e governi in carica. Giuseppe Mineo
è un docente universitario nominato giudice del Consiglio siciliano dalla
giunta dell’ex governatore Lombardo. Nel 2016 vuole ascendere al Consiglio di Stato.
A trovargli appoggio politico sono gli avvocati Amara e Calafiore, che versano
300 mila euro al senatore Denis Verdini, che invece nega tutto. L’ex ministro
Luca Lotti però conferma che proprio Verdini gli chiese di inserire Mineo tra
le nomine decise dal governo Renzi. Alla fine il giudice raccomandato perde la
poltrona solo perché risulta sotto processo disciplinare per troppi ritardi
nelle sue sentenze siciliane.
Tra i legali ora indagati c’è un altro illustre avvocato,
Stefano Vinti, accusato di aver favorito un suo cliente, l’imprenditore Alfredo
Romeo, con una tangente mascherata da incarico legale: un “arbitrato libero”
(un costoso verdetto privato) affidato guarda caso al padre del solito Russo.
Proprio lui, l’ex giudice che sta cercando di usare lo squadrone delle toghe
sporche, ancora ignote, per fermare i magistrati anti-corruzione.