Coronavirus: c’è rischio di rivolta sociale
BORSA E FINANZAIl rinvio delle aperture aumenta le perdite economiche e la povertà. E per molti, costretti a pagare senza incassare, la pazienza non durerà a lungo.
Da una parte c’è chi decide
di tenere la corda tirata per tutelare la salute dei cittadini ed evitare che
risalga la curva dei contagi da coronavirus. Dall’altra, c’è
chi sente come quella corda si stringe sempre di più attorno al collo fino a
diventare un cappio asfissiante. Chi si trova dalla parte del più debole, però,
finisce prima o poi per reagire, se non altro per spirito di sopravvivenza. È
quello che sta succedendo con chi si vede rinviare di volta in volta, a colpi
di Dpcm, la possibilità di riprendere la propria attività, cioè di portare di
nuovo a casa all’inizio di ogni mese un reddito. Ed è qui che si avverte il rischio di rivolta sociale. Che la fede sia
in grado di muovere le montagne ce l’ha detto il Vangelo. Che cosa sia in grado
di sollevare la fame ce l’ha insegnato, invece, la Storia.
Per ora, i nervi sono tesi
ma si riescono a tenere sotto controllo. Per quanto tempo ancora non si sa. I
segnali di disperazione, pacifici ma pressanti, arrivano già da tempo ma ogni
giorno che passa diventano più assordanti. Le aziende chiedono dei soldi per
mantenere gli organici e per recuperare fatturati andati in fumo negli ultimi
due mesi di chiusura forzata. Le famiglie si sono trovate dall’oggi al domani
con stipendi ridotti o assenti. I sussidi dello
Stato, per quanto arrivino carichi di buona volontà, non bastano per pagare
affitti e spese. I commercianti alzano gli occhi al cielo pregando che il 18 maggio
arrivi quanto prima, ma sanno che con gli ingressi contingentati nei negozi e
con tutti i protocolli di sicurezza da rispettare, ora che riusciranno a
recuperare gli incassi persi avranno già iniziato a pagare di nuovo le tasse con i soldi
che non hanno. Le mamme tremano all’idea di perdere il lavoro per dover
restare a casa con i figli, in assenza di progetti estivi per i bambini messi
in piedi da qualche struttura.
E poi ci sono i più penalizzati dell’ormai famosa fase 2, gli
ultimi ad alzare la saracinesca: bar, ristoranti, parrucchieri, estetiste.
In Italia, si contano 150mila bar, i ristoranti sono circa 180mila. Il Governo
darà loro la possibilità di vendere cibo d’asporto, ma i responsabili della
categoria ridono per non piangere: insieme, i ristoratori perderanno ogni
giorno 240 milioni di euro. Quando arriverà il 1° giugno e si tirerà una riga
per fare il conto delle perdite durante il periodo di emergenza, la cifra da
scrivere supererà alla grande i 40 miliardi di euro, dopo i 9 miliardi non incassati
per la chiusura prorogata. Hai voglia a vendere panini o vaschette di spaghetti
e di arrosto da portare a casa o in ufficio.
Senza
contare che ci sarà da lavorare per adattare i locali e che la clientela sarà,
per forza di cose, più ridotta. Mantenere le distanze tra i tavoli e
tra le persone vorrà dire che dove prima mangiavano in 100 ora dovranno
mangiare in 50 o 60. E non è che li puoi mandare via di corsa per fare un altro
giro di commensali. A cascata, meno clienti e più
spese potrebbe significare meno
personale a cui dare lavoro: l’elenco dei nuovi poveri sembra
destinato inevitabilmente ad aumentare.
Dietro
a ristoranti, alberghi, mense o bar c’è anche una filiera alimentare che da due
mesi non batte chiodo: sono i fornitori della merce che non viene consegnata
perché non deve essere servita a nessuno. Altri 5 miliardi di euro che se ne
vanno nel mese di maggio per la mancata riapertura della ristorazione.
La
sensazione è che, non solo in questo settore ma in tanti altri messi in
ginocchio dal coronavirus e dai decreti restrittivi, si stia perdendo la
pazienza. Buona parte dei parrucchieri e dei gestori dei centri di benessere si
stanno chiedendo se vale la pena riaprire i battenti. Non possono nemmeno
incassare qualcosa da mettere da parte per quando finirà la proroga delle tasse
e dei contributi e l’Agenzia delle Entrate e l’Inps verranno a bussare alla
loro porta.
Nel frattempo, ci si guarda in
giro e si vede che altri Paesi si stanno portando avanti con le riaperture.
C’è una punta di invidia mista a rabbia in chi si chiede se anche qui si poteva
fare lo stesso. Ma il problema non è solo l’oggi: il timore è pensare a che
cosa succederà tra 20 giorni, tra un mese, quando la fase 2 sarà entrata nel
pieno. La minaccia del Comitato tecnico-scientifico è chiara: se, una volta
avviata la ripartenza, vediamo che i contagi aumentano, si chiude un’altra
volta, cioè si torna alla fase 1.
Vengono
i brividi solo a scrivere questa frase: «Si chiude un’altra volta».
Sarebbe la mazzata finale per l’intero Paese. Le attività della piccola e media
impresa, insieme al commercio, salterebbero per aria. Lo Stato non ce la
farebbe a stare dietro ai sussidi da pagare alle decine di migliaia di persone
che non avrebbero più né un reddito né una prospettiva. Le banche
faticherebbero a concedere un credito a chi sa che non potrà offrire delle
garanzie e, a loro volta, finirebbero sull’orlo del precipizio. Ed è lì che
potrebbe palesarsi in modo chiaro ed inequivocabile il rischio
della rivolta sociale. Perché tenere a bada la pazienza, a quel
punto, sarebbe assai complicato.
Occorre, quindi, evitare che la corda si spezzi
a forza di tirarla troppo da entrambe le parti. Se da una parte serve rimettere
in moto senza altri indugi l’economia del Paese,
dall’altra ci vuole il più elevato senso di responsabilità possibile per
impedire che qualcuno costringa tutti a tornare indietro. La stessa forza con
cui si chiede di non posticipare ulteriormente le aperture, anzi di anticiparle
se possibile, è quella che serve per rispettare e per far rispettare le regole
a tutti. È l’unico modo per non sentirsi dire un giorno quella frase che
incomberà sull’Italia per qualche mese: «Si chiude un’altra volta».