Coronavirus, i tanti dietrofront dell’Oms: dai tamponi alle mascherine (fino al modello-Svezia)
SANITAI dietrofront sulle mascherine e sui tamponi, l’accusa di essere «filocinese», i ritardi nel dichiarare l’emergenza: è bufera sull’adeguatezza dell’Oms a gestire la pandemia
L’ultima contraddizione è stata sul «caso
Svezia». «Un modello da seguire sulla strada
di una nuova normalità»: così l’ha definita in una conferenza stampa il 30
aprile Mike Ryan, capo del programma emergenze sanitarie dell’Organizzazione
mondiale della sanità. Eppure fin dall’inizio dell’emergenza l’agenzia ha sostenuto
l’efficacia dell’opposto «modello cinese»,
cioè di una reazione all’epidemia centrata soprattutto su misure di lockdown
rigidissime. Ad attaccare l’Organizzazione mondiale della Sanità, definendola
«filocinese», è in queste settimane soprattutto il presidente americano Donald
Trump, che ha sospeso il versamento delle quote di appartenenza.
Ma all’indirizzo dell’agenzia - il cui mandato
comprende il monitoraggio e la prevenzione di emergenze sanitarie
mondiali - si sono levate critiche su più fronti. Le
mascherine: da principio definite «inutili», poi dopo molto tempo consigliate; la
raccomandazione di somministrare tamponi solo a chi avesse già sintomi
evidenti, prima, per poi fare un brusco dietrofront e suggerire di farne il più
possibile; la
lentezza generale dell’Oms nel dichiarare, uno dopo l’altro, gli stati
d’allerta globale che hanno condotto a una pandemia
«che è lontana dall’essere sconfitta» (così il direttore dell’agenzia, Tedros
Adhanom Ghebreyesus). L’Oms poteva essere più efficace nella lotta al
coronavirus?
Un’agenzia troppo «filocinese»
L’accusa più
politica è quella di essersi mostrata troppo «filocinese». Il presidente degli
Stati Uniti Donald Trump ha sospeso i finanziamenti
Usa all’Oms (è il 17-18 per cento del bilancio) che definisce
«succube della Cina»; ma anche il vicepremier giapponese Taro Aso ha suggerito
polemicamente di ribattezzarla «Organizzazione Cinese della Sanità». La
questione di Taiwan, ancora non ammessa tra gli Stati membri dell’Oms (perché
repubblica de facto non riconosciuta dalla Cina) nonostante un contenimento esemplare
dell’epidemia, ha avuto in questo frangente ampia risonanza internazionale, e
un duro editoriale del Wall Street Journal ha definito l’Oms «lost in Beijing», perduta a Pechino.
I ritardi sul tema della trasmissione «da uomo a uomo»
Il virus
viene sequenziato per la prima volta in un laboratorio di Wuhan il 27 dicembre.
La Cina trasmette il dato all’Onu due settimane dopo: il 10 gennaio. Ma il
direttore generale Ghebreyesus twitta: «La rapidità e la trasparenza della Cina
in questo frangente sono stati impressionanti». In quei giorni Taiwan avverte
(invano) l’organizzazione del pericolo di trasmissione umana, e così fa il
medico-eroe Li-Wenliang (poi morto di Covid-19): nulla da fare. Il 14 gennaio
Ghebreyesus twitta ancora. «Non ci
sono prove che il virus si trasmetta da uomo a uomo». Ha appena incontrato Xi Jinping a Pechino, lodandone la trasparenza. Più
avanti, mentre il mondo intero diffida dei dati ufficiali comunicati dalla
Repubblica Popolare (le cui stesse autorità, ad aprile, li rivedranno seppur
moderatamente al rialzo), l’Organizzazione mondiale della sanità continua a
prenderli per buoni: comprese le osservazioni provenienti da Wuhan sulla
trasmissione del virus tra umani. «L’Oms non aveva mezzi di verificare sul
campo», ha detto Larry Gostin, funzionario Oms, al New
York Times. «O, se vogliamo essere meno pietosi,
non ha fatto abbastanza per farlo, e si è fidata della Cina».
I pazienti asintomatici
Sempre nelle
prime fasi della pandemia, una ricerca di Hong Kong contesta i dati cinesi: non
contano i pazienti asintomatici. Ma un
report Oms: «I pazienti asintomatici sono rari, e difficilmente trasmettono il
morbo». A marzo uno studio pubblicato sulla
rivista Science attribuisce agli asintomatici la responsabilità dell’80% dei contagi. Di lì
in poi l’Oms smette di minimizzarne il ruolo, e il
primo aprile l’epidemiologa Oms Maria van Kerkhove raccomanda, nel briefing di
Ginevra, «l’importanza di tracciare anche gli asintomatici, che prima o poi
arrivano a sviluppare i sintomi».
Il ritardo nel dire: «È pandemia» e la previsione (vana) di settembre
La stessa
definizione di «pandemia», poi, che solo l’Oms è deputata ufficialmente a dare, è arrivata quando da
tempo era chiaro che tutte le aree del pianeta erano
interessate dall’emergenza: l’11 marzo. Prima c’era stata una serie di report
tranquillizzanti: solo il 28 gennaio la minaccia dell’epidemia cinese era diventata «elevata», da
«moderata», per il resto del mondo. Eppure già a settembre, in un
report intitolato «A World at Risk», l’Organizzazione mondiale della
sanità profetizzò anche la minaccia «molto reale» di «una pandemia altamente
letale di un agente patogeno respiratorio, che potrebbe uccidere fino a 50-80
milioni di persone e spazzare via il 5% dell’economia mondiale». Le cause
ipotizzate: principalmente la diffusione accidentale o di proposito di virus
respiratori sequenziati in laboratorio. «Il mondo non è pronto per questo»,
concludeva il report. L’allarme è caduto nel vuoto, superato dalla realtà: la
pandemia globale da coronavirus che si è poi verificata è arrivata molto
presto, solo poche settimane dopo.
Il dietrofront sui tamponi
Infine ci
sono critiche anche alla confusione delle linee guida dell’Oms circa test
sierologici, tamponi e mascherine. Sui tamponi: le prime linee guida dell’Oms,
che forse hanno influenzato anche la drammatica scarsità di test e tamponi in
molti Paesi, come l’Italia, sono state di somministrarne «solo ai casi
sospetti». Cioè persone con sintomi respiratori acuti o contatti accertati con
positivi, o entrambi i casi. Solo il 16 marzo il direttore Ghebreyesus twitta:
«C’è un solo messaggio per tutti i nostri stati membri: testare, testare,
testare». Andrea Crisanti, microbiologo dell’Università di Padova che ha
coordinato la risposta del Veneto all’epidemia, ha criticato l’Oms per non aver
raccomandato da subito i tamponi agli asintomatici.
La marcia indietro sulle mascherine
Anche sulla necessità di indossare le
mascherine, la comunicazione dell’Oms e le sue linee guida ai Paesi sono state
spesso contraddittorie. Nelle fasi iniziali della pandemia l’agenzia si è espressa
chiaramente: sono inutili per
proteggersi, lasciarle ai medici e agli infermieri. Ancora il 6
aprile Ghebreyesus raccomandava: «Consigliamo l’uso delle mascherine mediche a
chi è malato o si deve prendere cura di una persona malata, o ai Paesi dove
misure come lavarsi le mani e stare a distanza sono difficili da applicare. Ci
preoccupa che l’uso di massa di queste mascherine da parte delle persone possa
aggravarne la carenza». Poi la retromarcia. Due
giorni dopo l’esperto Oms Mike Ryan spiega: «Possono essere d’aiuto nel
contesto della lotta globale alla pandemia».Il 13 aprile il
portavoce Oms David Navarro dice che «portarle dovrà diventare la norma».
I guariti «non sono immuni»
Infine l’ultima polemica è quella sull’immunità acquisita dai guariti: non c’è nessuna prova, ha dichiarato l’Oms pochi giorni fa, che le persone guarite da Covid-19 abbiano anticorpi in grado di proteggere da una seconda infezione. A questo punto della pandemia «non ci sono abbastanza evidenze sull’efficacia dell’ immunità data dagli anticorpi per garantire l’accuratezza di un “passaporto di immunità” o un ”certificato di libertà dal rischio”». Ma sarebbe una prudenza giusta solo in teoria, secondo molti immunologi: a oggi non vi sarebbero evidenze di persone ammalate di Covid due volte. E uno studio recente della rivistaNature Medicine rileva che «in tutti i malati si riscontrano anticorpi entro 19 giorni dall’insorgere del Covid».