Misteriosi anelli bianchi apparsi attorno a barili di rifiuti tossici gettati in mare: lo studio che svela il segreto
SALUTEMisteriosi anelli bianchi apparsi attorno a barili di rifiuti tossici gettati in mare: lo studio che svela il segreto
Un’eredità velenosa nascosta per decenni nelle profondità del Pacifico riaffiora oggi in tutta la sua portata. E con essa, un enigma che mescola scienza, industria e ambiente.
Il tratto di mare al largo della California meridionale, a prima vista paradisiaco, custodisce da decenni un segreto inquietante. L’oceano blu cobalto, frequentato da balene e delfini, bagnato da spiagge famose e popolato da sub e surfisti, nasconde nelle sue profondità un cimitero industriale sommerso: centinaia di migliaia di barili contenenti rifiuti tossici, scaricati in mare quando lo smaltimento era più una questione di costi che di sicurezza.
Si stima che, tra gli anni ’40 e ’70 del secolo scorso, aziende chimiche e petrolifere abbiano scaricato fino a mezzo milione di fusti tossici nell’area compresa tra la costa di Los Angeles e l’isola di Santa Catalina. Una pratica che oggi appare inconcepibile ma che, all’epoca, veniva tollerata — e in certi casi persino autorizzata.
Molti di questi barili, corrosi dal tempo e dalla pressione, giacciono ormai aperti sul fondale, riversando sostanze velenose. Ma un nuovo studio ha rivelato un dettaglio che ha colpito la comunità scientifica e preoccupato le autorità: attorno a una parte di quei fusti si sono formati misteriosi anelli bianchi, visibili nelle riprese effettuate da robot subacquei.
Un fenomeno che ha alimentato speculazioni e timori: cosa sono esattamente questi anelli? Sono un segnale di contaminazione in corso, un’allerta biologica, oppure qualcosa di ancora più misterioso?
La risposta, finalmente, è arrivata da un team di oceanografi, geologi e biologi marini che ha studiato da vicino queste inquietanti formazioni.
L’indagine sul fondo dell’oceano
Il primo avvistamento risale a missioni di ricerca condotte con sottomarini teleguidati (ROV) della Scripps Institution of Oceanography. Durante i rilievi sonar, gli scienziati notarono non solo la distesa impressionante di barili, ma anche queste curiose aureole bianche che li circondavano.
Gli anelli apparivano come zone prive di vita: un contrasto netto con il fondale circostante, popolato da spugne, vermi tubicoli, stelle marine e microrganismi. Nelle zone interessate, invece, dominava un colore lattiginoso, quasi fluorescente, che disegnava cerchi concentrici attorno ai fusti.
Per mesi, i ricercatori hanno raccolto campioni di sedimenti e analizzato le immagini. L’ipotesi iniziale era che si trattasse di colonizzazioni batteriche: comunità microbiche capaci di nutrirsi di sostanze tossiche, trasformandole in composti secondari. Ma la realtà si è rivelata più complessa.
La natura degli “anelli bianchi”
Secondo il nuovo studio pubblicato su Science Advances, gli anelli bianchi non sono semplici colonie batteriche. Si tratta di precipitazioni chimiche formatesi a seguito della lenta fuoriuscita di composti tossici, tra cui DDT e derivati clorurati, che reagendo con i minerali del fondale marino hanno creato strutture cristalline insolubili.
In altre parole, le sostanze si sono fuse con i sedimenti circostanti, trasformandosi in uno strato di crosta minerale biancastra che avvolge il barile come una cicatrice permanente.
Questa reazione ha due conseguenze inquietanti:
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Gli anelli non possono essere rimossi facilmente. Non si tratta di uno strato superficiale da aspirare o raschiare, ma di una vera e propria modifica chimica del fondale.
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Gli anelli sono una fonte continua di contaminazione. Anche se solidificati, rilasciano lentamente micro-particelle tossiche, capaci di entrare nella catena alimentare marina.
Il professor Daniel Weisberg, geochimico coinvolto nello studio, ha spiegato:
“Questi anelli bianchi sono come ferite chimiche incise nel fondale oceanico. Non si possono cancellare senza portare via con sé intere porzioni di sedimenti. È una testimonianza indelebile di ciò che abbiamo fatto al mare”.
Le implicazioni ambientali
L’aspetto più preoccupante riguarda gli effetti sugli ecosistemi. Gli scienziati hanno rilevato che le concentrazioni di DDT nei sedimenti vicino agli anelli sono fino a 50 volte superiori alla media oceanica.
Alcune specie di pesci demersali — quelli che vivono a stretto contatto con il fondale — presentano tracce elevate di contaminanti nei tessuti. Balene e leoni marini, predatori apicali della catena alimentare, accumulano questi composti nei grassi corporei, con conseguenze sulla loro salute riproduttiva.
Non è un caso che già negli anni ’70 il DDT fosse bandito negli Stati Uniti, dopo la scoperta dei suoi devastanti effetti sulla fauna aviaria e sulla salute umana. Ma i fusti sepolti in mare, lontani dagli occhi del pubblico, continuarono per decenni a rilasciare sostanze tossiche, senza che nessuno se ne occupasse seriamente.
Una bonifica impossibile?
Cosa fare adesso di fronte a questa scoperta? Gli anelli bianchi, proprio per la loro natura chimica, non possono essere semplicemente aspirati o rimossi. Intervenire con draghe o escavatori rischierebbe di sollevare nuvole tossiche, peggiorando la situazione.
Gli esperti propongono quindi un approccio cauto: monitoraggio costante, mappatura dei fusti e studio di tecnologie innovative che possano isolare le aree contaminate senza diffondere i veleni. Alcuni suggeriscono di ricoprire i barili e gli anelli con strati di sedimenti puliti, creando una sorta di sarcofago naturale.
Ma resta il problema della scala: con centinaia di migliaia di barili sparsi su decine di chilometri quadrati di fondale, ogni tentativo di bonifica appare titanico e costosissimo.