Dobbiamo chiamare le cose con il loro nome: genocidio
SOCIETADobbiamo chiamare le cose con il loro nome: genocidio
“Genocidio” non è una parola a effetto, non è un’esagerazione da piazza, non è una metafora. È un termine giuridico preciso, definito dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 come “atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Usarlo implica un’assunzione di responsabilità politica e legale.
Ecco perché ciò che sta accadendo oggi in Palestina – o meglio, ciò che lo Stato di Israele sta compiendo nei confronti della popolazione palestinese – non può più essere descritto solo come un “conflitto” o come una “risposta militare”. La sproporzione di mezzi, il numero crescente di vittime civili, le condizioni di vita imposte a milioni di persone parlano un linguaggio che corrisponde ai criteri fissati dal diritto internazionale.
Il peso delle parole
Molti governi occidentali evitano il termine “genocidio” come se fosse una mina diplomatica. Si preferiscono formule più neutre: “crisi umanitaria”, “guerra asimmetrica”, “operazione militare”. Ma le immagini che arrivano da Gaza e dalla Cisgiordania mostrano altro: ospedali bombardati, scuole trasformate in rifugi colpite, infrastrutture civili ridotte in macerie.
Chiamare le cose con il loro nome non è un atto retorico: è un obbligo morale e giuridico. Dire “genocidio” significa riconoscere che non siamo di fronte a una tragica conseguenza della guerra, ma a una strategia sistematica di distruzione di un popolo.
Diritto internazionale e responsabilità
Se un crimine è qualificato come genocidio, entrano in gioco conseguenze concrete:
- obbligo per gli Stati di intervenire per fermarlo, secondo la Convenzione ONU;
- giurisdizione universale, che permette di processare i responsabili davanti a corti internazionali;
- responsabilità politica diretta per chi continua a sostenere, finanziare o armare l’autore del genocidio.
Non si tratta quindi di un dibattito accademico: è questione di legge. Il riconoscimento di un genocidio attiva meccanismi che i governi preferiscono eludere per non incrinare equilibri geopolitici.
La sproporzione come prova
Israele afferma di agire per difendersi da Hamas. Ma il diritto internazionale distingue tra autodifesa e punizione collettiva. Quando intere città vengono isolate senza acqua né elettricità, quando ospedali non possono curare i feriti perché privati di carburante e medicine, quando la percentuale di vittime civili supera ogni giustificazione militare, non siamo più davanti a una semplice operazione bellica.
Gli esperti parlano di “intento genocidario”: distruggere non solo le strutture di un gruppo politico, ma le condizioni di vita di un popolo, rendendo impossibile la sopravvivenza.
Politica e silenzio
Perché è così difficile pronunciare la parola “genocidio”? Perché dire quella parola significherebbe ammettere complicità. Significherebbe riconoscere che i governi che forniscono armi a Israele partecipano, di fatto, a un crimine internazionale. Significherebbe aprire la porta a processi, sanzioni, rotture di alleanze.
Ecco perché molti leader preferiscono il silenzio o le mezze frasi. Ma questo silenzio pesa: pesa sulle vittime, pesa sulla credibilità delle istituzioni internazionali, pesa sul futuro stesso del diritto internazionale.
Non solo coscienza, ma giustizia
Usare il termine “genocidio” non è solo un atto di coscienza. È un passaggio che apre la strada alla giustizia. Senza quel riconoscimento, ogni discussione politica rimane sospesa nell’ambiguità. Con quel riconoscimento, invece, entrano in gioco tribunali, obblighi di intervento, rottura della complicità internazionale.
Conclusione
In Palestina non sta accadendo soltanto una “crisi umanitaria”. Sta accadendo ciò che il diritto internazionale chiama genocidio. Dirlo, scriverlo, riconoscerlo significa assumersi la responsabilità che la storia e le vittime ci chiedono.
Le parole non fermano le bombe, ma aprono la strada al diritto e alla politica. Continuare a chiamarlo “conflitto” è un tradimento semantico che diventa, di fatto, complicità.