Addio mantenimento all’ex moglie che non ha voglia di fare nulla
ULTIMA ORAL’assegno divorzile non spetta se il richiedente non dimostra di essersi attivato per cercare un lavoro, a meno che non sia impossibilitato a farlo.
L’assegno di mantenimento non deve andare a fannulloni e pelandroni. Chi non ha voglia di fare nulla, e dopo la fine del matrimonio non si dà da fare per cercare un lavoro, deve dire addio a questo beneficio economico, che altrimenti sarebbe ingiustificato.
Dunque, niente assegno divorzile all’ex coniuge che non ha un lavoro e non prova di essersi attivato per cercarlo, secondo le sue condizioni e nei limiti delle sue concrete possibilità. Lo ha stabilito il Tribunale di Napoli in una recente sentenza [1] richiamando l’orientamento già espresso dalla Corte di Cassazione in proposito: per avere diritto all’assegno bisogna dimostrare non solo l’inadeguatezza dei propri mezzi economici ma anche l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive.
Inadeguatezza dei mezzi significa, secondo il tribunale napoletano, non autosufficienza economica , ed era questo il caso della signora 54 enne che aveva richiesto ai giudici la corresponsione dell’assegno da parte dell’ex marito (un medico con un reddito imponibile accertato di quasi 100 mila euro annui, successivamente ridotto per cambiamento di incarichi professionali e abbandono della docenza universitaria).
Ma questo, secondo i giudici napoletani, non basta: per evitare il «rischio di creare rendite di posizione » occorre che l’ex coniuge – a meno che non sia assolutamente incapace a procurarsi mezzi economici – debba attivarsi nella ricerca di un lavoro . I giudici lo definiscono «principio di autoresponsabilità » di ciascuno degli ex coniugi e si riportano all’insegnamento in proposito della Cassazione [2] che già da tempo dice addio al mantenimento per la ex moglie che può lavorare .
«La funzione dell’assegno divorzile non è quella di ricostituire il tenore di vita coniugale, ma principalmente di assistere il coniuge privo incolpevolmente di mezzi adeguati», proclama un’altra e ancor più recente sentenza della Suprema Corte [3] . Fin qui i principi generali; ma cos’era successo nel caso specifico e perché l’assegno è stato rifiutato?
Ecco come il Tribunale ha stabilito che la donna fosse in grado di lavorare ma non si era attivata per farlo: vero è che aveva più di 50 anni (un’età non facile per cercare un nuovo lavoro) ed era priva di fonti proprie di reddito, ma risultava che era iscritta all’Università , facoltà di medicina, ed era fuori corso da ben 24 anni. Inoltre – osservano i giudici «non ha mai lavorato né è stato dedotto che abbia mai cercato lavoro, non essendo nemmeno iscritta al Collocamento provinciale».
Approfondendo l’esame sulla vita trascorsa dalla signora, i giudici rilevano che si sposò quando era già da 11 anni fuori corso, mentre il marito era già a quel tempo un professionista affermato. E, soprattutto, nel corso del giudizio per ottenere l’assegno di mantenimento, la richiedente si è limitata a richiamare «la propria condizione di “ studentessa universitaria “, senza nemmeno dedurre di aver ripreso gli studi e di aver fatto ulteriori esami o di avere cercato un inserimento nel mondo del lavoro ».
Strada chiusa dunque per ottenere l’assegno: durante tutto il periodo di 8 anni trascorsi dal momento della separazione coniugale, «è rimasta inerte , senza alcun impegno alla conclusione degli studi universitari né alla ricerca di un lavoro ». E non ha fornito neanche la prova di aver contribuito, con la propria attività familiare, all’ accrescimento del patrimonio coniugale , permettendo al marito di dedicarsi maggiormente alla professione, o di aver rinunciato ella stessa a proprie aspirazioni lavorative per consentire al marito di realizzare le sue. Al contrario, l’ex marito ha dimostrato che l’intero apporto di beni patrimoniali e di mezzi economici proveniva da lui.
Così la “studentessa matura” che non era impossibilitata a lavorare, ma non si era mai attivata per farlo ha visto bocciata dal tribunale la sua richiesta di ottenere l’assegno divorzile , che nel suo caso – osservano i giudici napoletani – avrebbe costituito una « rendita parassitaria »