Tra mito, archeologia e segreti genetici sepolti nella polvere del tempo
C’è un istante nella storia in cui la linea che separa mito e cronaca si assottiglia fino quasi a sparire. Un istante che le tavolette di argilla, sopravvissute per migliaia di anni nelle sabbie della Mesopotamia, sembrano trattenere come una fotografia scattata nella notte dei tempi. In quelle incisioni cuneiformi, il popolo sumero raccontava di esseri discesi dal cielo, “figli di An” – il dio supremo – che plasmarono l’umanità. Li chiamavano Anunnaki, termine che in diverse forme – da-nuna, da-nun-na-ke4-ne, da-nun-na – significava “quelli di sangue regale”, “prole principesca”, “figli del cielo”.
I Sumeri non scrivevano favole per passare il tempo. Le loro parole erano atti ufficiali, registrazioni meticolose di eventi e conoscenze. Per loro, gli Anunnaki non erano semplici divinità eteree, ma personaggi concreti: leader, giudici, ingegneri di civiltà. L’assiriologo Pietro Mander li descrive come un nome collettivo per un’élite divina che, in epoche antiche, comprendeva sia le divinità celesti sia quelle infere. In seguito, nel periodo kassita, il termine finì per indicare soprattutto le potenze sotterranee, in contrapposizione agli Igigi, gli dèi “lavoratori” di rango inferiore. Alcuni testi fissano il loro numero con precisione matematica: trecento Anunnaki nei cieli, seicento nel sottosuolo, un esercito cosmico suddiviso tra luce e ombra.
Jean Bottéro e Samuel Noah Kramer, autorità assolute nello studio del Vicino Oriente antico, confermano che gli Anunnaki rappresentavano il gruppo dei grandi dèi che prendevano le decisioni fondamentali per il destino del mondo. Nei testi più tardi, però, la distinzione tra Anunnaki e Igigi si fa sempre più sfumata, fino a renderli in certi contesti intercambiabili. Giovanni Pettinato aggiunge un dettaglio cruciale: gli Anunna erano giudici supremi dei destini, dei vivi e dei morti, e nei miti della discesa agli Inferi – come quello di Ištar – appaiono sia come signori celesti sia come dominatori del regno dei morti.
Ma al di là della teologia mesopotamica, una domanda si fa strada: se queste figure erano solo simboli, perché i Sumeri le descrivevano con tale ricchezza di dettagli concreti, fino a raffigurare oggetti e gesti che sembrano alludere a conoscenze tecnologiche? Nei bassorilievi vediamo figure alte, barbute, con abiti elaborati e strani strumenti in mano; rappresentazioni di “alberi della vita” circondati da esseri alati; scene in cui figure umane sembrano ricevere qualcosa da mani divine. In alcune incisioni, la disposizione dei pianeti attorno al Sole appare corretta, con la presenza di Urano e Nettuno, invisibili a occhio nudo e scoperti solo in epoca moderna. Coincidenze? O tracce di un sapere trasmesso?
Ed è qui che il mito si intreccia con l’ipotesi proibita. Lo scrittore e traduttore Zecharia Sitchin, reinterpretando le tavolette sumeriche, propose una storia diversa: gli Anunnaki non erano dèi nel senso religioso, ma una civiltà extraterrestre proveniente da un pianeta lontano, Nibiru, con un’orbita ellittica che ogni migliaia di anni li riportava vicino alla Terra. Secondo Sitchin, giunsero qui per estrarre oro, prezioso per stabilizzare l’atmosfera del loro pianeta. Ma il lavoro nelle miniere era pesante, così avrebbero deciso di creare una forza lavoro “ibrida”: unendo il proprio patrimonio genetico con quello dell’Homo erectus, avrebbero dato vita all’Homo sapiens.
L’ipotesi, per la scienza ufficiale, è pura fantasia. Le traduzioni di Sitchin sono contestate da linguisti e archeologi. Eppure, per molti ricercatori indipendenti e per milioni di lettori nel mondo, questo scenario spiega alcuni misteri: l’improvvisa comparsa di Homo sapiens con un cervello grande e capacità avanzate; il salto culturale della “rivoluzione neolitica”; la presenza di leggende simili in culture lontane, dagli Elohim biblici ai Viracocha delle Ande, dai Neteru egizi ai Deva vedici.
L’eco di queste storie si ritrova anche nella Bibbia. Gli Elohim, termine ebraico plurale tradotto con “Dio” ma letteralmente “divinità” o “potenti”, creano l’uomo “a nostra immagine e somiglianza” nel libro della Genesi. Alcuni studiosi notano che, se letto con occhi moderni, questo plurale e le descrizioni di interventi diretti sulla creazione umana possono evocare l’idea di un gruppo di esseri superiori, proprio come gli Anunnaki nelle tavolette sumere. In certe interpretazioni, Elohim e Anunnaki sarebbero due nomi per la stessa stirpe di “creatori”, filtrati da culture e lingue diverse.
Sul piano geologico, la teoria annunakiana trova appigli suggestivi nelle miniere d’oro preistoriche scoperte in Africa meridionale, datate a più di 100.000 anni fa. Alcuni ricercatori ipotizzano che siano troppo antiche per essere opera dell’uomo moderno e troppo avanzate per semplici estrattori paleolitici. Se gli Anunnaki erano alla ricerca di oro, come sostengono le tradizioni reinterpretate, questi siti potrebbero essere le cicatrici lasciate dal loro passaggio.
Il sito Due Passi nel Mistero amplia questa prospettiva con un elemento inquietante: secondo certi testi e tradizioni orali, gli Anunnaki avrebbero deliberatamente limitato la longevità umana, trattenendo per sé la capacità di vivere per centinaia di anni. L’uomo, così, sarebbe rimasto un essere consapevole ma vincolato, dipendente dal volere dei suoi creatori. Un’idea che risuona con i miti di Prometeo, di Adamo ed Eva e dell’albero della vita, dove un sapere o una facoltà viene negata o sottratta all’umanità.
Le testimonianze visive sono altrettanto intriganti: pitture murali e bassorilievi mostrano esseri con tratti sia umani che non umani, talvolta dotati di ali, talvolta accompagnati da simboli stellari. Nella cultura sumera, i templi – ziggurat – erano concepiti come punti di contatto tra terra e cielo, e spesso raffiguravano scene di “processioni divine” che scendono lungo scale o rampe, come se rappresentassero arrivi e partenze da “veicoli” posti in alto. Alcune interpretazioni vedono in queste immagini la sublimazione artistica di vere e proprie discese di visitatori celesti.
La scienza ortodossa spiega queste corrispondenze come convergenze simboliche: ogni civiltà, dicono, ha immaginato divinità creatrici e ha proiettato in cielo la propria origine. Ma chi spinge lo sguardo oltre nota che la precisione di certi dettagli – astronomici, architettonici, tecnologici – sembra eccedere il livello di conoscenza attribuito a quelle epoche.
Oggi, il mito degli Anunnaki è vivo come non mai. Non solo nei libri e nei documentari, ma anche nei forum, nelle conferenze, nelle ricostruzioni digitali che li raffigurano come ingegneri interstellari. È un ponte tra passato remoto e futuro ipotetico: ci ricorda che, forse, la nostra storia non è tutta scritta nei libri di scuola, e che tra le pieghe della terra e i segni dell’argilla potrebbero ancora nascondersi le prove di un capitolo dimenticato.
Se un giorno, scavando in un deserto o traducendo una tavoletta dimenticata in un museo, trovassimo un resoconto diretto – la cronaca del giorno in cui “gli Anunnaki crearono l’uomo” – la nostra idea di umanità cambierebbe per sempre. Fino ad allora, restiamo sospesi tra due possibilità: che si tratti di un mito nato dal bisogno di spiegare l’ignoto, o della memoria distorta di un incontro reale con i nostri creatori. In entrambi i casi, la domanda resta la stessa, la più antica di tutte: chi siamo, e da dove veniamo?