La verità su Autostrade. Benetton vicini al crac poi il governo li ha salvati

GOVERNO

La società è stata ben contenta di uscire da quell'inferno di risarcimenti. Altro che vittoria dello Stato come dicono i grillini

La famiglia Benetton con la società Autostrade ha trovato per lustri una gallina dalle uova d'oro. Ma la società che oggi grazie alla decisione del governo di Giuseppe Conte diventerà pubblica con l'intervento di Cassa depositi e prestiti non lo è più, anzi. Il bilancio consolidato 2019 ha chiuso infatti con una perdita di 291, 3 milioni di euro, che si è mangiata un terzo degli utili accantonati negli anni precedenti a riserva. Ne restano ancora 566 milioni, ma non basteranno a coprire la perdita immaginata per il 2020, che potrebbe essere superiore al miliardo di euro.

Se come vuole il governo entro la fine dell'anno Cassa depositi e prestiti avrà la maggioranza di Autostrade per l'Italia (Aspi), toccherà allo Stato coprire quel buco. E visto che il trend è negativo e il governo vuole ridurre il margine operativo della società e abbassare le tariffe, lo Stato si troverà davanti una falla nei conti pubblici di una certa importanza, e non quell'affare della vita immaginato un po' ingenuamente dai vari Danilo Toninelli e grillini festanti.

Perché anche in seguito al braccio di ferro che c'è stato con questo esecutivo la situazione finanziaria del gruppo oggi ancora in mano ai Benetton attraverso Atlantia è tutt'altro che rosea. La botta decisiva è giunta nel gennaio scorso dal contemporaneo downgrade del rating creditizio di Autostrade da parte delle tre principali agenzie: Moody's, Fitch e Standard & Poor's, provocato dall'articolo 35.

Tanto che gli amministratori hanno dovuto scrivere nella nota integrativa del bilancio che «il declassamento sotto il livello investment grade potrebbe esporre al rischio che Banca Europea per gli investimenti e, per quota parte del suo credito, Cassa depositi e prestiti, possano chiedere protezioni aggiuntive, e ove tali protezioni non fossero giudicate ragionevolmente soddisfacenti, ritengano di potere chiedere il rimborso anticipato del debito in essere (pari al 31 dicembre 2019, a circa euro 2,1 miliardi di euro).

L'eventuale inottemperanza a una richiesta di rimborso anticipato che fosse formulata da Bei e Cdp, sempreché legittima, potrebbe comportare analoghe richieste di rimborso da parte degli altri creditori della società, ivi inclusi gli obbligazionisti». Detta in soldoni, gli amministratori di Aspi dicevano agli azionisti: guardate che con quel che ci hanno fatto con il decreto milleproroghe e il downgrade delle agenzie di rating potremmo essere a un passo dal fallimento.

Non era un allarme esagerato, perché qualcosa di simile è avvenuto. Aspi fra il primo di gennaio e il 26 aprile scorso ha perso il 35,5% dei ricavi rispetto all'anno precedente per l'effetto Covid 19. Ha fatto stimare la perdita annua a vari istituti che hanno fatto una previsione che oscilla fra 850 milioni e un miliardo e 100 milioni di euro. A quel punto ha cercato un finanziamento per potere superare il periodo senza provocare quella catena di eventi infausti che si temeva. Il 3 aprile scorso ha presentato proprio a Cassa depositi e prestiti (Cdp) «una richiesta di erogazione per un importo totale di 200 milioni di euro a valere sul contratto di finanziamento stipulato con Cdp in data 15 dicembre 2017». Si trattava dunque di una quota di un prestito già accordato ma non erogato.

Pratica che si immaginava rapidissima. Invece il 24 aprile successivo Cdp ha risposto picche «rilevando tra l'altro come il decreto Milleproroghe» avesse ipotizzato la revoca anticipata delle concessioni «non subordinata al previo pagamento dell'indennizzo, stabilendo nuovi criteri per la determinazione di tale indennizzo in caso di estinzione per inadempimento del concessionario». Capito? Con una manovra a tenaglia il governo da una parte e il suo braccio operativo Cdp dall'altra stavano stringendo la morsa al collo di Autostrade, creando tutte le premesse per quello che è avvenuto la scorsa notte. Bel romanzone, con il possibile killer delle settimane precedenti che cambia vestito di scena e diventa il salvatore. I Benetton hanno aperto il portafoglio facendo evitare il crack alla controllata, grazie a una disponibilità di Atlantia manifestata per scritto il giorno stesso del gran rifiuto di Cdp di fornire un prestito ad Aspi fino a 900 milioni di euro.

Mentre c'era chi faceva la faccia feroce, sulla scena c'era pure chi faceva gli occhi dolci ai Benetton: il ministro delle infrastrutture, Paola De Micheli. Che avrà pure sollecitato il 5 marzo una decisione al premier Conte come ha fatto trapelare alla vigilia del consiglio dei ministri. Ma sia quel giorno che per le lunghe settimane successive ha tenuto aperto un tavolo con i Benetton facendo richieste anche formali (le ultime ad aprile) alle quali poi la società si adeguava. Come quella di alzare il livello di risarcimento dovuto dopo il ponte Morandi.

Già nel bilancio 2019 Aspi aveva messo da parte in tutto 2,9 miliardi di euro. Dopo il patto notturno con Conte, quella cifra verrà integrata di mezzo miliardo arrivando a 3,4 in tutto, compresi i costi di abbattimento e ricostruzione del ponte Morandi. Sono tutti in bilancio di Aspi fra il 2019 e il 2020, quindi di fatto peseranno sulle spalle di chi ne avrà la proprietà entro fine anno: Cdp e quindi lo Stato italiano. I Benetton che avevano mangiato la foglia come fanno capire con la relazione dei loro amministratori, ora sono belli felici di uscire da quell'inferno che non avrebbe dato loro più utili e anzi rischiava di fare saltare tutto il gruppo. Infatti ieri hanno smentito le presunte dichiarazioni contro l'esproprio subito riportate da qualche giornale. Perché si liberano di un grosso guaio e lo scaricano ben volentieri sulle spalle dello Stato. Che passata la sbornia delle prime ore, festeggerà assai di meno. 

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